venerdì 21 dicembre 2007

Muse


I























I Muse sono un trio di Tinighmonth, Inghilterra, esploso grazie a un sound peculiare, che combina tenere melodie vocali, chitarre al vetriolo e suggestive atmosfere elettroniche. Una formula che rivitalizza il pop anemico dei Radiohead con una verve hardcore presa in prestito da band come Sonic Youth, Nirvana e Rage Against The Machine.

La band nasce nel 1999 dall'incontro tra Matthew Bellamy (voce, chitarra e pianoforte), Dominic Howard (batteria) e Chris Wolstenholme (basso e cori). E nello stesso anno pubblica l'album Showbiz (Mushroom Records/Spingo) che conquista i favori del pubblico dell'indie-rock (oltre mezzo milione di copie vendute) e diversi premi della critica: "Brand New Band 2000" all'NME Carling Premier Awards, nomination come best band e best album ai Q Awards, best band e best live act ai Kerrang Awards. Sulla band si concentrano le attenzioni di diverse etichette internazionali, tra cui la Maverick di Madonna che li ingaggia negli Stati Uniti.

La critica li consacra subito come gli gli eredi del guitar-sound, ormai disperso in divagazioni elettroniche, dei Radiohead. Ma c'è anche chi li accosta al cantautorato poetico e intimista di Jeff Buckley. Eppure per Matthew Bellamy, leader della band, le influenze dei Muse sono completamente diverse: "Adoriamo i Rage Against The Machine e i Primus, siamo cresciuti ascoltando band alternative come Sonic Youth e Dinosaur Jr.". Influenze già percepibili in brani ambiziosi come "Fillip" e (soprattutto) "Sunburn", che travalicano i confini dell'agonizzante Britpop di fine anni '90. E di energia hardcore vibrano anche le performance live del gruppo, che sul palco scatena un uragano di suoni elettrici: "Ci presentiamo soli - racconta Bellamy - con i nostri strumenti, e chi ci ha visto può garantire che abbiamo l'energia di un'intera orchestra". E' proprio dal vivo, in effetti, che i Muse riescono ad essere più trascinanti, come conferma il successo della loro recente tournée italiana, che ha registrato sempre il tutto esaurito.

Ma l'etichetta Britpop, per i Muse, è difficile da cancellare. E c'è già chi ironizza su di loro come "cloni" dei Radiohead. "La missione dei Muse è suonare come un ibrido geneticamente modificato di Queen, Jeff Buckley e Radiohead. Ci sono riusciti?", ironizza New Musical Express. E così Bellamy e soci decidono di accentuare l'anima rock del loro suono. Dichiarano apertamente di volersi rifare soprattutto al chitarrismo doc, da Jimi Hendrix ai Nine Inch Nails, passando per i Police e i Nirvana. E al solito produttore John Leckie (Radiohead, Stone Roses) decidono di affiancare David Bottrill, già con A Perfect Circle, Tool, Deus. La svolta si consuma in un tour americano che vede i Muse come gruppo spalla prima di Pavement e Flaming Lips, e poi dei Red Hot Chili Peppers. Bellamy, chitarra elettrica alla mano, si esibisce in performance infuocate che culminano spesso con il sacrificio degli strumenti di hendrixiana memoria.

Da questa svolta chitarristica nasce il nuovo album Origin Of Symmetry, preceduto dal robusto singolo "Plug In Baby". Registrato negli studi Real World di Peter Gabriel a Bath e nello studio galleggiante sul Tamigi di proprietà dei Pink Floyd, è un album rabbioso e romantico al tempo stesso, che conferma il talento della band britannica. L'umore malinconico di brani come "New Born" ("L'amarezza cresce dentro/ come un neonato/ quando hai visto troppo e troppo presto"), "Darkshines" e "Citizen Erased" aggiorna al Duemila lo spleen decadente di Morrissey. E tutto il disco mette in mostra un sound fattosi ora più corposo e variegato, con tinte elettroniche metalliche e spaziali. Lo stesso NME, che nel frattempo li ha consacrati "band rivelazione del 2000", scrive ora di loro: "I Muse sono riusciti a trasformare le loro nevrosi di provincia in un'idea universale".

Il successo di Origin of Symmetry riporta alla luce anche uno dei primi lavori della band: l'interessante Ep Muscle Museum, che mette in evidenza il debito dei Muse verso il prog-romantic degli Ultravox di "Quartet". Ormai la stampa britannica punta chiaramente su di loro, insieme ai Belle and Sebastian, come band di punta della scena indie rock. Ma Bellamy resta diffidente sui pericoli dello show business: "Ci sono molti uomini d'affari che spremono gli artisti e basta. In Gran Bretagna, poi, la stampa esagera sempre: ora ti esalta e ora ti distrugge. Fino a poco fa non venivamo presi sul serio, forse perché eravamo troppo giovani, ora le cose stanno cambiando". Parola del nuovo astro nascente del rock britannico. Un ragazzo del 1978 che dice di identificarsi in "Blue Valentine" di Tom Waits e di amare oltre ogni limite il personaggio di Al Pacino nel "Padrino".

I Muse tornano nel 2002 con la doppia antologia Hullabaloo Soundtrack che raccoglie B side degli inizi carriera (marzo 1999-ottobre 2001) più un estratto da un concerto a Parigi.

Nel 2003 i Muse tornano con Absolution , per un ennesimo successo di pubblico, che però delude in buona parte le aspettative della critica.
Dopo una intro inutile parte "Apocalypse Please", pezzo tirato retto in retrovia da un accordo elementare di piano, con la voce di Bellamy che come al solito tende in progressione e gioca in falsetto, pochi accordi di tastiere minimali alla Philip Glass. Pezzo sincopato dalla struttura scheletrica ma di buon impatto. Come al solito, però, è la voce che sorregge il brano mentre la parte strumentale arranca un po’. La successiva" Time Is Running Out" è un pezzo tutto sommato simile, ma gode di una progressione mozzafiato rovinata da un coretto indegno in coda allo zenit emotivo del brano. Rallentiamo con "Sing For Absolution", pezzo compositivamente più solido, decisamente melodico con finale in crescendo, forse un po’ troppo urlato, ma tutt' altro che disprezzabile. "Stockholm Syndrome" prova degli inserti quasi heavy senza convincere, c' è una ricerca ostentata del “wall of sound”, ma tra l' altro cominciamo un po' ad annoiarci di Bellamy, sempre sull'orlo del collasso con l'ugola appesa al microfono. Pezzo inutile. "Falling Away With You" ha un inizio voce e acustica che ben presto accelera, per poi riprendere la linea melodica primitiva. Quello che manca è proprio la struttura compositiva, che risulta inconsistente. Tralasciamo "Interlude", 30 secondi di rumore , per proseguire con "Hysteria", pezzo chitarristico che riprende un po' "Stockholm Syndrome", con l'aggravante di un ritornello adatto ai cori da stadio. "Black Out" ci stupisce un po' per la sovrabbondante presenza di archi: pezzo malinconico, magari non travolgente, ma suggestivo.
Stiamo disperando di tornare almeno alla qualità dei primi brani ed ecco " Butterflies And Hurricanes", forse il pezzo migliore del disco, solita progressione, ma rinvigorita e raffinata da un ottimo ed eclettico gioco strumentale, con la sezione ritmica che riesce a oltrepassare i limiti di un accompagnamento granitico ma un po’ ottuso e inserti pianistici che sembrano veramente rubati a Gershwin. Un pezzo ridondante e decadente, ma veramente notevole. Che sia solo un 'illusione, però, lo dimostra la successiva "The Small Print", solito e sterile scintillar di muscoli e rotear di spade. "Endlessly "è un riempitivo così come "Thoughts Of A Dying Atheist", che per lo meno ha il pregio di una ritmica ballabile e divertente. Colpo di coda finale con "Ruled By Secrecy", lenta, al piano, suadente e malinconica.
Absolution è un disco alterno, non da buttare ma sostanzialmente una grossa delusione.

Il quarto disco dei Muse abbandona in parte le atmosfere da qualunquismo apocalittico orribilmente classicheggiante del lavoro precedente, per ripescare il pop-rock elettrico degli esordi, ma non solo. Il gruppo cerca nuove vie, tenta di ampliare il proprio raggio d’azione; impossibile non porsi dubbi dopo il passo falso di Absolution, che faceva intravedere un’obsoleta tendenza a comporre canzoni banali e ripetitive.

Il singolo che lancia Black Holes & Revelations (2006) lascia intravedere segnali incoraggianti: "Supermassive Black Hole", con il suo riff epidermico e il suo falsetto volutamente sdolcinato, si rivela infatti un ibrido rock moderno, con la sua carica ipnotica, tra eco discendenti e distorsioni luccicanti. Purtroppo, però, non tutto il disco si mantiene su questi standard; il synth che introduce "Take a Bow" sa di già sentito ed il tema melodico è ancora peggio; i Muse vogliono comporre musica toccante, ma non sono i Radiohead. Il brano si riprende tuttavia nel crescendo elettronico successivo, avvincente e ricco di tensione. La melodia banale di "Starlight" si basa su un impasto di fondo discreto; rovinato dall’appeal troppo easy del cantato. Ugual sensazione suscita "Invincibile", forte di un ritmo marziale e di musicalità tenui, rovinate dalla melodia insulsa. "Soldier’s Poem" è la solita triste ballata senza alcun sussulto emotivo.
Le trame si fanno più interessanti con "Map Of The Problematique", un affascinate intreccio di chitarre ed elettronica dalle sonorità distese e ben equilibrate. "Assassin" è bel rock, affannato forse nel refrain, ma abbastanza slanciato nel macinare ritmi furenti. L’epico riff di "Exo Politics" è probabilmente il migliore del lotto, stesso discorso non si può fare per la melodia che si dimostra il principale punto debole del disco. Dispiace vedere come brani discreti di rock elettronico vengano continuamente rovinati dal songwriting stantio di Mathew Bellamy. "City Of Delusion", sfuggente mix di psichedelica sintetica e armonie latineggianti, sarebbe stata un piccolo capolavoro, messa nelle mani dei musicisti giusti. "Hoodoo" fa capire che i Muse, privati della voce lamentosa di Bellamy, sarebbero potuti essere persino un punto di riferimento per il prog-rock.
Ma purtroppo non tutte le favole hanno un lieto fine e dobbiamo accontentarci dei sei splendidi minuti di guerra trasposta in musica che vanno a formare "Knights Of Cydonia", forse l’unico vero brano degno di essere ricordato in questo disco, insieme al primo singolo.
Black Holes & Revelations è un album sintomatico dei problemi del gruppo; le potenzialità per diventare qualcuno ci sono, ma nella maggior parte dei casi vengono sciupate a favore di un pop-rock dannatamente insulso e maleodorante. È ora che i Muse imparino a gestire le loro capacità.

DISCOGRAFIA :

1999 : Muscle Museum EP
1999 : Showbiz
2001 : Origin of Simmetry
2002 : Hullaballoo
2003 : Absolution
2006 : Black Holes and Revelations

mercoledì 19 settembre 2007

Prozac +


Si ispirano al punk-rock californiano e suonano come supporter nei concerti degli U2. Hanno trovato il successo coniugando la velocità del punk e melodie pop. E i loro testi, nel bene e nel male, hanno fatto scandalo. Ma ora i Prozac + sono attesi alla sfida più difficile

Si sono formati sul duro fronte del palco. E, dopo tanta gavetta, sono riusciti a sfondare, grazie a due album di successo come "Acidoacida" e "3 Prozac +". La loro è una musica che si esalta soprattutto nei concerti. I Prozac +, infatti, sono una band nata per suonare dal vivo. Lo dimostrano anche l'esperienza di supporter degli U2 nelle due date del "Pop Mart Tour '97" e la massacrante sequenza di oltre duecento concerti in due anni. Sono esibizioni piene di vigore, in cui Eva (voca), Gian Maria (chitarra) ed Elisabetta (basso) sanno martellare l'uditorio con i loro brani iper-veloci, duri e melodici insieme: un punk aggiornato in chiave pop e condito d'ironia.

Durante i loro concerti, i fan più scalmanati rinnovano rituali punk: sputano e tentano a ripetizione di invadere il palco, "pogano" e urlano qualche amichevole volgarità all'indirizzo della band. Ma Eva, l'esile cantante dalle variopinte parrucche, non perde il tempo neanche per un attimo: salta, balla e canta con invidiabile energia. Tutto rievoca apertamente l'era punk, con tanto di sirene dell'auto della polizia nello stile dei Clash di "Police on my back".

Nel 1997 l'album Acidoacida li ha proiettati nelle top ten italiane, in forza di un riuscito cocktail di punk e pop, con testi che descrivevano, in modo forse superficiale ma senz'altro efficace, il disagio giovanile. Un disco facile, ma non banale, trainato dalla deliziosa "Acida", in bilico tra ritmi martellanti e melodia. Il loro primo exploit era stato però "Pastiglie", un pezzo ironico sulla vita da "impasticcati", che era valso loro una certa notorietà nella scena underground italiana.
I loro testi hanno provocato malumori e qualche polemica sulla loro presunta "tossico-filia" (Prozac è la marca di un noto antidepressivo). In effetti, più di un sospetto di ruffiano "scandalismo" suscita un testo come quello di "Betty tossica": "Ha 15 anni ma ne mostra 30/ vive nei parchi assieme ai gatti/ tutti si innamorano di Betty tossica/ un'eroinomane, la più bella che c'è". Ma la band si è sempre difesa sostenendo che i loro testi "non fanno altro che mostrare un approccio laico e non moralista al disagio giovanile".
L'altra accusa, invece, è quella di convertire il punk a facili melodie. "In fondo - replica Gian Maria Accusani, chitarrista e autore dei testi - anche i pezzi del punk californiano a cui ci ispiriamo erano delle canzoni con melodie anni '60, ma suonate più dure". Non si può dare torto, in effetti, a questi discepoli dei Ramones, perché i loro brani riescono a graffiare anche solo con un paio di accordi azzeccati e un refrain accattivante.
Quella dei tre punk venuti da Pordenone, insomma, è una formula ibrida, che accontenta i nostalgici dei Sex Pistols strizzando l'occhio alle classifiche. Al punto che Acidoacida è riuscito a vendere oltre 160mila copie.

Ma il rischio che Accusani diceva di temere più di ogni altra cosa - "la ripetitività" - è emerso puntuale con 3 Prozac +, il loro secondo album, che sbatte in copertina rifiuti e desolazione. Un disco che si compiace nel presentare tutto ciò che è squallido (le immagini del cd mostrano nel dettaglio: merce avariata, gomme abbandonate, discariche abusive), ma che non riesce ad essere immediato e comunicativo come Acidoacida. Molti brani girano a vuoto e sembra di riascoltare pezzi precedenti, ritoccati con un arrangiamento diverso. Prosegue l'approfondimento del disagio, con pezzi come "Stonata" ("Mi sento bene/ solo se mi faccio male."), "Ordine e disordine" ("Mi uso e abuso di me/ mi spingo sempre oltre il limite/ Ma il limite non so più dov'è, il limite non esiste"). E i rimandi a una vita fuori dalle regole continuano, come in "Pds" (che non sta per Partito democratico della sinistra, ma per "persa-diversa-sconvolta"), in cui Eva canta: "Sono così come sono, così mi piaccio/ Sono così diversa, diversa fuori e dentro/ Sono così, non cambio, nata così per scherzo".
Troppo per non suscitare il sospetto che la band di Pordenone sia vittima di qualche prematuro segno di manierismo e di stanchezza. Intanto, "3 Prozac+" è stato anche tradotto in inglese per il mercato internazionale.

Il successivo album Miodio segna una nuova tappa nel progresso della band, con piccole evoluzioni nell'organizzazione delle melodie e degli arrangiamenti, ma sempre nel solco della collaudata formula di un pop-punk frizzante e un po' straniato. I testi confermano una ironia di fondo (a cominciare dal titolo, da leggere indifferentemente come "Mi odio" o "Mio Dio"), ma anche la consueta analisi del malessere esistenziale giovanile. I brani sono ancora una volta gradevoli, anche se un po' ripetitivi, intonati con approccio cantilenante dall'inconfondibile Eva e - in quattro casi su tredici, compreso il singolo "La storia di Piera" - dal più aspro Gian Maria Accusani. In generale, si ha l'impressione di un disco che tenta con fatica di intraprendere la strada di una maturazione indispensabile per il futuro della band.

Maturazione che si presenta puntuale con il successivo "Gioia Nera", in cui il trio friulano si cimenta ancor più con la sperimentazione strumentale, dando luce a perle quale il singolo da traino del disco "Luca" o "Mi mandi fuori".

Nel 2007 viene infine pubblicata la "Platinum Collection" della band, che su 2 cd raccoglie tutte le maggiori hit del gruppo pop-punk.

Discografia Prozac + :

1996 : Testa Plastica
1998 : Acido Acida
2000 : 3
2002 : Mio Dio
2004 : Gioia nera
2007 : Platinum Collection


Powered by ScribeFire.

giovedì 26 luglio 2007

Nirvana

Discografia dei Nirvana

1989 : Bleach
1991 : Nevermind
1992 : Incesticide
1993 : In Utero
1993 : Hormoaning
1994 : Umplugged in New York
1995 : Single Box
1996 : From the Muddy Banks
2002 : Nirvana
2004 : Whit the Lights Out
2005 : Sliver

I Nirvana sono il gruppo più rappresentativo del movimento grunge. In pochi anni e con una manciata di album all’attivo, sono riusciti a imporsi come la vera leggenda della scena di Seattle, riuscendo a interpretare l’umore di un’intera generazione e trasformando l’alternative rock in un fenomeno di massa. Il sacrificio del loro leader, Kurt Cobain, ha certamente alimentato il mito, ma l’impatto della musica dei Nirvana sugli anni ’90 è indiscutibile e si può paragonare per certi versi a quello avuto dagli Rem e dagli U2 sul decennio precedente.

Le radici delle band sono individuabili nell'ambiente dei loro colleghi Melvins. Ispirandosi a loro, Kurt Cobain (canto e chitarra), Chris Novoselic (basso) e Chad Channing (batteria) formano i Nirvana e iniziano a suonare usando proprio la strumentazione di seconda mano dei Melvins. In realtà, nessuno dei tre è di Seattle: Cobain è nato a Hoquiam (Washington), Novoselic e Channing sono californiani. Ma i loro dischi, insieme a quelli di Pearl Jam e Soundgarden, trasformeranno questa piccola città del Nord-Ovest degli States in una fabbrica di successi miliardari.

Dopo aver pubblicato il 45 giri “Love Buzz/Big Cheese” per l'etichetta simbolo della scena cittadina, la Sub Pop Records, i Nirvana esordiscono a 33 giri con Bleach (1989). Cobain si rivela subito l’anima del gruppo. Le sue capacità compositive, in bilico tra John Lennon e Sid Vicious, emergono da pezzi come “About A Girl”, una ballata che preannuncia l'esistenzialismo e la vena desolata del suo stile, ma anche da prototipi grunge come “School”, “Blew” e la cover “Love Buzz” che fissano subito i parametri del sound Nirvana degli anni a venire. Un sound duro e spigoloso, che mescola il blues-rock sporco di Rolling Stones e Stooges con la tradizione hard-rock (dai Led Zeppelin agli Aerosmith) e con il fervore hardcore di Husker Du e Pixies. Il disco e la successiva tournée garantiscono alla band un buon successo e la incoraggiano a proseguire, malgrado già affiorino i problemi di salute psico-fisica del suo leader.

Ingaggiato alla batteria Dave Grohl (Warren, Ohio), il trio firma con la major Geffen e, nel settembre 1991, pubblica Nevermind. Prodotto da Butch Vig e mixato da Andy Wallace, è un disco destinato a entrare di diritto nei classici di sempre.

Pochi album, nella storia del rock, hanno infatti saputo incarnare con la stessa intensità gli umori e le ansie di un'intera generazione. Eppure Kurt Cobain, a registrazioni ultimate, non era soddisfatto.

Non perdonava a Gary Gersh e a Andy Wallace, rispettivamente discografico e produttore, di aver voluto mettere le mani sul materiale, accentuandone dinamica e profondità, e smussandone gli angoli. Stava commettendo un errore colossale. Proprio l'equilibrio, infatti, è il segreto di questo lavoro, capace di mescolare con le giuste proporzioni hard-rock e melodia, asprezza del suono e nitidezza degli arrangiamenti, furia punk iconoclasta e malinconia esistenziale. La peculiarità dei Nirvana è di saper associare al sarcasmo nichilista del punk un talento melodico sconosciuto a gran parte delle formazioni che emergono nello stesso periodo. E poi ci sono i testi: una perfetta fusione fra musica e vita, in grado di creare una simbiosi mitica fra artista e pubblico che tocca il suo apice in “Smell like teen spirit”, il grido rabbioso che apre l'opera e rimarrà negli annali a simboleggiare lo spirito, apatico e sarcastico, di un'intera generazione (lo rivisiterà anche in un'interessante versione "sensuale" Tori Amos).

Rinunciando in parte alla durezza del precedente “Bleach”, Cobain dà sfogo ai suoi demoni in una serie di ballate nevrotiche, che ricordano da vicino quelle del suo grande maestro, Neil Young. Ascoltare per credere pezzi come “In Bloom”, “Lithium” e “On A Plain”, che donano al disco un tormentato vigore. Ma a conquistare il pubblico sono anche l'autobiografica “Come As You Are”, il lamento acustico di “Polly”, il bisbiglio moribondo di “Something In The Way”. L'album (quasi 10 milioni di copie vendute, contro le 30mila dell'esordio) diventerà uno dei maggiori successi discografici di tutti i tempi, senza alienare tuttavia ai Nirvana le simpatie delle frange più "dure e pure" del loro pubblico. L'urlo di Cobain, quasi distaccato, ma al tempo stesso vivo e struggente, diventa in breve tempo uno dei simboli più potenti del rock di fine secolo. E la musica di Seattle porta alla luce un'altra America, popolata di giovani disadattati e inquieti che, da underground, assurgono improvvisamente a fenomeni di costume.

Nel dicembre 1992 la Geffen pubblica Incesticide, raccolta di rarità registrate alla BBC, singoli inediti su album e versioni alternative. Poi, nel settembre del 1993, dopo una serie di speculazioni sullo stato di salute di Cobain, esce In Utero. Prodotto da Steve Albini, guru della scena alternative e del punk più duro, il disco viene inciso in due sole settimane. È una miscela di canzoni rabbiose e desolate (“Rape Me”, “Serve The Servants”, “Pennyroyal Tea” e, soprattutto, “All Apologies”, ripresa poi anche da Sinéad O’Connor) e di esagitate esplosioni rumoristiche al limite della cacofonia (“Scentless Apprentice”, “Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle”, “Milk It” e l'autoironica “Radio Friendly Unit Shifter”). Molto più debole di “Nevermind”, l’album riflette soprattutto l’odissea personale di Cobain, sposatosi nel frattempo con Courtney Love delle Hole. E’ la testimonianza di un cupo, inguaribile senso di impotenza e fatalismo.

Il disco ottiene un buon successo di vendite, anche se aliena in parte al gruppo le simpatie di quella "Mtv generation" che li aveva consumati come l’ennesima “sensazione” del momento. Ma proprio su Mtv i Nirvana ripropongono, in un’affascinante chiave acustica, molti dei loro successi, incidendo il fortunatissimo Unplugged in New York. Testimonianza di un concerto del novembre 1993, l’album svela l’anima sofferente delle canzoni di Cobain. Spogliati degli orpelli hard-rock, i brani dei Nirvana si rivelano struggenti confessioni di un incurabile disagio esistenziale. Un’atmosfera di tragedia imminente pervade le rivisitazioni di “Pennyroyal Tea”, “All Apologies”, “Come As You Are” e “About A Girl”. Ma a dare nerbo al disco sono anche alcune cover come “The Man Who Sold The World” di David Bowie, “Lake Of Fire” e “Oh Me” dei Meat Puppets e una straziante versione del classico di Leadbelly “Where Did You Sleep Last Night”. Nello stesso periodo, la Geffen pubblica anche la videocassetta “Live! Tonight! Soldout!”, una storia musicale nervosa e ironica dei Nirvana ricostruita con spezzoni di interviste e filmati amatoriali alternati ad alcune esibizioni dal vivo. La dimensione più selvaggia ed elettrica dei concerti della band di Seattle sarà invece testimoniata dal live From the muddy banks of Wishkah.

Ma il successo non servirà a guarire il biondo idolo punk di Seattle. Come prima di lui Jimi Hendrix e Jim Morrison, anche Kurt Cobain porterà ad estreme conseguenze la sua autodistruzione. Dopo lunghi e dolorosi mesi dedicati a un tour europeo, l'8 aprile 1994 il leader dei Nirvana si toglie la vita con un colpo di pistola, consacrandosi per sempre al culto dei fan. Nel suo messaggio d’addio, un epitaffio: “It’s better to burn out than to fade away”, “meglio bruciarsi che svanire a poco a poco”. E’ un verso di "My my, hey hey", la canzone del suo maestro Neil Young. Un anno dopo, il cantautore canadese renderà omaggio alla memoria del suo discepolo dedicandogli "Sleep With Angels".

Neanche Kurt Cobain sfuggirà purtroppo all'immancabile operazione commerciale post-mortem, che porterà alla "riesumazione" del suo ultimo brano prima del suicidio, "You Know You're Right", allo scopo di vendere qualche copia in più dell'antologia The Best Of Nirvana (tredici classici della formazione di Seattle). E su altri presunti 109 brani inediti, nascosti in qualche cassaforte, è già iniziata la battaglia legale tra Courtney Love, Krist Novoselic e Dave Grohl. "Capisci, ci sono un sacco di soldi di mezzo", ha ammesso la Love. Ma è solo l'ennesimo litigio sulle briciole dei defunti nella storia del rock.



( si ringrazia " Onda Rock " per la biografia )

sabato 21 luglio 2007

System of a Down

Discografia dei System of a Down :

1998 : System of a Down
2001 : Toxicity
2002 : Steal This Album
2005 : Mezmerize
2005 : Hypnotize




Il loro nome nasce dalla fusione fra il vocabolo "System" e una poesia, "Victim of a Down", come a voler dire "la forza unita all'arte". La musica dei System Of A Down si può riconoscere in questo contrasto.
E' il 1993 quando Serj Tankian (voce) e Daron Malakian (chitarra), due giovani di origine armene, si conoscono tramite le rispettive band che registravano nello stesso studio a Los Angeles. Hanno gusti musicali convergenti e decidono cos' di formare un gruppo, i Soil, ingaggiando Shavo Odadjian sia come bassista e chitarrista, sia come loro manager. Nel 1995 avviene la svolta con la formazione ufficiale dei System Of A Down: Serj e Daron rispettivamente alla voce e alla chitarra, mentre Shavo si dedica unicamente al basso, con la nuova e definitiva entrata di John Dolmayan alla batteria.
Le origini armene del gruppo hanno un ruolo importante nella natura della loro musica. Infatti, l'heavy metal e il punk-hardcore (Van Halen e Dead Kennedys le loro maggiori influenze), che costituiscono la base dei System Of A Down, vengono combinati con scale e sonorità di stampo medio-orientale, particolarmente valorizzate dalla voce versatile di Serj. Nel loro repertorio, però, si possono scovare anche testi rap, distorsioni degne del thrash-metal e versi che sfiorano il demenziale. In qualche intermezzo, si possono notare perfino malinconiche venature gothiche o manifestazioni para-jazz.
Il periodo delle prime produzioni dei System Of A Down coincide con la commercializzazione del crossover, che fa emergere una moltitudine di gruppi cosidetti nu-metal. Comunque, eccezion fatta per qualche caratteristica in comune (passaggi con ritmica vocale cadenzata), i System Of A Down non si inseriscono in questo minestrone, grazie alla grande varietà di influenze che compongono le loro canzoni.

Certamente non si possono paragonare o mettere sullo stesso piano con i Rage Against the Machine, come spesso capita di sentire. Si può azzardare l'idea di una sorta di rimpiazzo: se Serj non ha acquisito il testimone musicale di Zack de la Rocha, può darsi che abbia ricevuto l'eredità del suo ruolo mediatico e politico, capitanando un gruppo aggressivo, impegnato e unico nel suo genere.

Il primo album omonimo System Of A Down, prodotto da Rick Rubin per la American Recordings nel 1997, viene registrato nei Sound City Studios. La filosofia di base dei nostri consiste nell'evitare di seguire una linea sonora precisa e lasciare il progetto aperto a tutte le influenze che sentono proprie. Hanno la fortuna di trovare Rubin sulla loro stessa lunghezza d'onda, che accetta quasi tutto il materiale per come viene proposto (esegue solo qualche accorgimento in tonalità minore) e pubblica il disco con minimi arrangiamenti nel mixaggio finale. Questo anche per rispettare la loro volontà di avere un sound "live", che potesse dare il massimo di sé nelle esibizioni dal vivo.
È un debutto potente quello del 1998, ancora fortemente basato sull'heavy-metal, con il ruolo chiave della batteria che risalta nelle sue ritmiche veloci e martellanti. Purtroppo, complessivamente l'album risulta abbastanza monotono e, nonostante si percepiscano le prime sonorità ricercate, dà l'impressione di un lavoro immaturo, nel quale affiorano sì alcuni spunti originali, ma discontinui e mai adeguatamente valorizzati. Questi frammenti di talento si possono intravedere soprattutto in "Suggestions" e "Mind". La prima anticipa la tipica concezione musicale "multiforme" che il gruppo saprà esprimere al meglio nel suo secondo lavoro, la seconda svela il gioco di combinazioni fra suoni orientali (eseguiti con limpide note di chitarra) e momenti di pura violenza vocale. "Spiders", invece, mette ulteriormente in evidenza il canto di Serj Tankian, che, da urlo veemente sa farsi, a tratti, morbido bisbiglio.

L'album, comunque, ottiene un enorme successo (quasi un milione di copie vendute, disco d'oro negli Usa), grazie al momento favorevole per questo genere musicale e a una massiccia presenza live del gruppo, che si esibisce come in tanti concerti come spalla di formazioni metal di importanza mondiale.

Dopo tre anni di maturazione ed esperienza sul palco, i System Of A Down tornano nel 1998 con la pubblicazione di Toxicity per una major, la Sony. Le 14 tracce abbracciano le svariate influenze musicali dei membri della band che vanno dagli Slayer ai Beatles, dagli Smiths ai Depeche Mode fino ai Pink Floyd.
Si comincia subito col botto, con "Prison Song", una canzone che sembra esser nata per dimostrare la stazza del nuovo lavoro, una sorta di compendio di tutte le influenze che il disco cercherà di assorbire, ma soprattutto un saggio della potenza quasi metal del gruppo. Se "Needles" vira verso atmosfere più melodiche, "Deer Dance", canzone prettamente politica dai ritmi ossessivi e isterici, sembra quasi un ritorno al sound irruento dell'esordio. Dopo l'accoppiata di marca più "hardcore" rappresentata da "Jet Pilot" e "X", si arriva al fulcro dell'album, con il singolo "Chop Suey", la chicca dei System Of A Down, che combina perfettamente le urla disperate di un testo commovente con melodie suggestive, la distorsione con il suono pulito di Daron, le velocità assurde con la dolcezza di un raro inserto di piano. La nona traccia, "ATWA (Air, Trees, Water, Animals)", ispirata alla vicenda degli omicidi di Charles Manson, è un altro brano interessante, strutturato come una forma di ninna nanna alternata a boati di parole balbettate e a continui cambi di ritmo. Altra traccia da segnalare è "Shimmy", con le sue scale dal sapore mediorientale. Infine, un trittico di brani più orecchiabili, da Mtv: l'altro singolo "Toxicity", che combina parti melodiche con la rabbia politica condensata nel ritornello gridato, "Aerials", costruita sul fitto dialogo tra la voce di Tankian e la chitarra di Malakian, e la terrificante "Psycho" (stramba storia di groupie cocainomani), in cui Dolmayan si esibisce nel suo tocco demenziale. La hidden track "Arto" ripropone invece ambientazioni puramente tribali, a cura del poli-strumentista Arto Tuncboyaciyan, già al fianco di mostri sacri del jazz come Al DiMeola, Wayne Shorter e Chet Baker. Una curiosità: nel disco Tuncboyaciyan ha suonato di tutto, da una bottiglia vuota di Coca Cola, alle percussioni sul suo petto nudo, a un vaso pieno d'acqua.

Il passo in avanti effettuato con questo lavoro è notevole: oltre ad aver migliorato la qualità del suono, i System Of A Down si concentrano su una maggior personificazione dei brani, rendendoli unici e puntando molto, giustamente, sulla bella voce di Serj.
Purtroppo, come spesso capita con le band inesperte toccate dal successo, dopo l'exploit di Toxicity hanno avuto fretta. Fretta di ripetersi? Fretta per soldi? Fretta di fare politica? Proabilmente un po' di tutto, sta di fatto che nel 2002, a un solo anno di distanza, pubblicano il terzo album, Steal This Album (American Recordings), compiendo un deciso passo indietro. Se da una parte i momenti strumentalmente interessanti diminuiscono drasticamente, è evidente l'aumento di cori orecchiabili e sonorità immediate. Affiora, comunque, qualche sporadico inserto interessante come "Boom", sorta di cronaca parlata della società odierna, o "I-E-A-I-A-I-O", carina e originale, con un crescendo di cori orientali. Anche la malinconica "Highway Song", tutto sommato, si salva. C'è un buon tentativo di diversificazione in chiave acustica ("Ego Brain" e "Roulette") che però risulta fuori luogo in un disco che, come consiglia il titolo stesso, è meglio rubare, perché non vale la pena comprare.

Nell'insieme, i System Of A Down si possono definire un progetto con un buon potenziale, dimostrato soprattutto con Toxicity. Hanno il pregio di essere originali, con il loro mix fra i più svariati generi che però, in certi casi (Steal This Album), si trasforma in stereotipo, buono per sfornare canzoni a ciclo continuo, anche nei buchi d'ispirazione. Sicuramente hanno sfruttato il successo mediatico: per soldi, è l'opinione di alcuni, o a scopo politico-sociale, è la convinzione di altri. La verità è nella libera interpretazione di ognuno, come dichiara Serj Tankian, ostinatamente restio a tutte le etichette che gli continuano a essere attribuite.

Attesi da pubblico e critica alla prova del fuoco del terzo disco (escludendo la raccolta di outtake "Steal This Album"), nel 2005 i System Of A Down partoriscono Mezmerize, prima parte di un progetto destinato a completarsi sei mesi dopo con il gemello Hypnotize.
Il disco si presenta decisamente più poliedrico dei precedenti, le parti melodiche in alcuni casi sono quasi pop, la dicotomia tra i generi si fa più marcata. Dopo l'intro-ballad di "Soldier Side", si viene investiti dalla furia iniziale di "B.Y.O.B." nella quale si colgono già le prime novità e i primi rischi che i System hanno voluto correre in questo album. Rischiosa, in termini di possibili riscontri della critica, può essere la scelta di alcune parti del pop più commerciale a sottolineare, in questo pezzo, una sorta di disorientamento mentale che certa musica esercita sui giovani nascondendo loro i tanti orrori del mondo attuale. La novità, se così si può chiamare, sta nell'utilizzo più esteso e costante della voce del chitarrista Daron Malakian, più incline al metal classico, accanto a quella più eclettica e singolare del cantante Serj Tankian; nonostante il buon Serj, giustamente innamorato della propria dote, si produca in vocalizzi a volte troppo arditi, la scelta di quest'incrocio di voci sembra essere l'elemento più riuscito del disco. Mentre sia "Revenga" sia "Cigaro" si presentano in puro stile S.O.A.D., impeto metal interrotto da ritornelli melodici destinati a fissarsi nella mente, "Radio/Video" è una delle tracce in cui i System osano di più e, in definitiva, una delle migliori del disco: l'hard-rock non è più in primo piano, ma fa da intervallo a una filastrocca ethno-folk che diventa reggae, accelera per trasformarsi in danza gitana, e si conclude con un ultimo scoppio di potenza.
Se in alcuni passaggi musicali e nelle stramberie del testo di "This Cocaine Make Me Feel Like I'm On This Song", si può riconoscere un palese debito verso i Dead Kennedys, certi passaggi di "Violent Pornography" e "Sad Statue" richiamano senz'altro i Bad Religion: il risultato sono comunque tre brani che, nonostante qualche debolezza, rimangono senz'altro godibili. In mezzo a loro, si nasconde la seconda perla di "Mezmerize": sarà forse tra le tracce meno "ricercate" del disco, ma "Question!" è una ballata dal respiro epico, che offre la miglior prova tecnica di tutti e quattro i componenti del gruppo, primo su tutti il bravissimo batterista John Dolmayan. Più particolare è invece "Old School Hollywood", ibrido metal-new wave in cui effetti elettronici si amalgamano perfettamente con i crescendo di batteria e con le esplosioni chitarristiche, dando vita a un pezzo di assoluta presa e a uno dei migliori tentativi di "innovazione" del sound sperimentati in questo album dai System Of A Down. L'album si conclude in un clima di amara dolcezza con "Lost In Hollywood", una ballata malinconica affidata completamente a Daron che, supportato dal backing vocals di Serj, inveisce contro un mondo dorato fatto di falsità e privo di valori, concludendo l'album con una frase di sicuro impatto, ma che forse - e Malakian e soci lo sanno - si può rivolgere anche a parte del loro sempre più numeroso pubblico: "All you bitches put your hands in the air and waves like you just don't care".

Mezmerizesi rivela un buon disco, ottimamente suonato, di cui si possono dire tante cose: che sia più vendibile perché più melodico dei precedenti, che sia contraddittorio nello scagliarsi contro il vuoto pneumatico delle giovani menti da party utilizzando melodie di facili presa, ma che conferma anche che i System Of A Down sono un gruppo che non ha paura di rischiare e di mettersi in gioco. Nonostante tutto, insomma, il gruppo armeno resta una delle realtà più importanti del moderno scenario di metal e dintorni.

A distanza di sei mesi dall'uscita di Mezmerize, i System Of A Down completano il loro discusso progetto pubblicando il gemello Hypnotize. Nato dalle stesse sessioni del precedente, quest'ultimo lavoro si trascina dietro svariate polemiche giunte da ogni parte, che accusavano i rocker armeni di aver nascosto dietro teorie non ben spiegate quella che in realtà era una furba operazione commerciale. Tralasciando però l'aspetto di marketing e tornando alla forma puramente musicale, il disco si presenta per molti versi simile al suo predecessore, breve durata (nell'ordine della trentina di minuti), costituito di pezzi in puro stile S.O.A.D. e da altri in cui il gruppo di Tankian e Malakian cerca di percorrere vie diverse e più originali, con una generale inclinazione verso un approccio più melodico. Nel complesso, però, questo secondo lavoro è più debole, meno organico e troppo dispersivo, con almeno un paio di canzoni che paiono dei riempitivi e con i System che più volte paiono perdere il controllo. Presi dalla foga di cambiare continuamente ritmo e stile, Malakian e compagni tendono a esagerare, producendo canzoni che smarriscono la scorrevolezza e l'uniformità che possedevano pezzi come "Radio/Video". I singoli di uscita, ad esempio, dicono già molto: mentre "B.Y.O.B." era un pezzo che possedeva una buona carica e i cui inserti pop erano ben amalgamati all'interno della struttura metal, "Hypnotize" invece pare solamente un'innocua ballata rock in cui Malakian fa sfoggio della sua voce, meglio spesa però nelle tracce di Mezmerize.Le iniziali "Attack" e "Dreaming" sono abbastanza legate al suono tipico della band: imperniate sul furioso drumming di Dolmayan e sulla voce di Tankian, scorrono piacevoli nonostante la seconda si perda un po' nel finale.
"King Of Rock'n'Roll" è una di quelle tracce che potrebbe benissimo definirsi "riempitivo", "Stealing Society" e "U-Fig", nonostante alcune parti interessanti, sono canzoni comunque troppo confuse e sconnesse che, anche dopo svariati ascolti, non lasciano traccia nell'ascoltatore, mentre "Tentative" e "Holy Mountain" sono buone prove di cavalcate metal-progressive, che però non possiedono la forza e la bellezza essenziale che aveva "Question!" nell'album precedente. Seguono due tracce in cui Malakian e soci sembrano voler dar fondo a tutto il possibile per stupire gli ascoltatori, "Vicinity Of Obscenity" con il suo intervallare metal violento, ritmi quasi etnici e ritornelli pop, e "She's Like Heroin" che, anche grazie al suo testo straniante, risulta un divertissment à-la Jello Biafra.
Nel concludere il disco, i System Of A Down si lasciano prendere la mano definitivamente da un suono più melodico e sfornano due ballad, "Lonely Day", più malinconica e lieve, e "Soldier Side", continuum dell'intro presente su "Mezmerize", più cupa e disperata.

Si ha l'impressione netta che le indiscusse potenzialità del gruppo di Malakian e Tankian qui siano sprecate in un eccesso di idee assemblate male, con tanta voglia di cambiare (e stupire), ma senza possedere una vera ispirazione. Non si può proprio fare a meno di pensare al costo, al minutaggio e alla qualità di questo "Hypnotize", pensare poi a tutte le polemiche che hanno seguito l'iter di questo progetto e convincersi che, effettuando un'accurata cernita, il gruppo avrebbe potuto scartare molte delle canzoni di questo disco per dare alla luce un unico album insieme a quelle di Mezmerize.

( si ringrazia "Onda Rock" per la biografia )